La penna ironica e appassionata di Marco Pomar arriva su Si24. Palermitano classe 1965, Marco Pomar si occupa di sport, di legalità e ha il “vizio” della scrittura con la quale esprime tutto il suo humor inglese. Collabora con la cooperativa sociale antiracket Solidaria ed è vice presidente della Polisportiva Waterpolo Palermo. Nel 2012 ha pubblicato la raccolta di racconti La memoteca (Novantacento), ed è in libreria un suo racconto all’interno dell’antologia Certe strade semideserte, pubblicata con la casa editrice Edizioni LEIMA.
A Taranto perdevamo sempre. Anche a Catanzaro, a pensarci. Però a Taranto era peggio, perché quelli lottavano sempre per salvarsi.
Ricordo che ci faceva gol quasi sempre Bortolo Mutti, bestia nera del nostro stopper, Mauro Di Cicco. Poi sarebbero diventati allenatori in prima e in seconda del Palermo, secoli dopo.
La mia è stata una generazione di serie B, nella sua adolescenza. Calcisticamente parlando, s’intende.
Si sfiorava la promozione, si sognava il terzo posto, l’ultimo utile, salvo poi finire rigorosamente sesti o settimi, e la vulgata popolare era che “in serie A un ci vonno ire, un ci cunviene!“
Lo stadio pre mondiali 90 era più piccolo, non c’era l’anello superiore, niente inferriate a delimitare la zona esterna, controlli assai più blandi. Noi ragazzini entravamo come figli di qualcuno, uno spettatore occasionale al quale si chiedeva la temporanea paternità. Ciascuno uno diverso, sia chiaro.
Quando si hanno tredici o quattordici anni, anche solo una stagione calcistica è importante, pesa per l’appunto uno su tredici, non uno su quarantacinque. Così ogni partita era una mezza sentenza, occasione da non perdere e motivo di frustrazione, a volte di lacrime sprecate. Come quella volta che il Monza di Monelli asfaltò le illusioni di serie A con tre gol a niente, o quando il Pisa di Chierico ci bloccò sul due a due.
Erano i tempi dei governi democristiani, delle impunite stragi di stato, dello strapotere juventino, ma solo in Italia. Non c’erano i telefonini, ma i gettoni, sugli autobus c’era il bigliettaio e non l’obliteratrice, giocavamo a calcio per strada con il super santos, e le soste per fare passare le automobili erano rare e sopportabili, c’era carosello e la cinquecento, normale e L.
Ci scontravamo contro squadre di località indefinite, come la Spal o la Sambenedettese, la Nocerina e la Pistoiese. La Favorita era uno stadio difficilmente espugnabile, anche se un pareggino lo si poteva portare via.
Cappellino antisole fatto col giornale L’Ora, ghiaccioli all’arancio lanciati con perizia, rapporti occasionali con tifosi mai visti, e attese interminabili per il fischio d’inizio.
Nei nostri ricordi calcistici adolescenziali non ci sono derby contro i cugini catanesi, che stazionavano nell’inferno della serie C.
Ma come ogni rospo che si rispetti, anche il Palermo dei Chimenti, Magistrelli, Silipo, Osellame, Borsellino, Frison e compagnia, aveva le sue notti da principe. Era la coppa Italia, nella quale misteriosamente undici orsetti si trasformavano in ghepardi, azzannando prede prestigiose senza alcuna logica. Scalpi illustri di squadre incontrate solamente in quelle occasioni, o nelle sporadiche amichevoli estive: Torino, Napoli, Lazio, Milan, Inter. Restava l’emozione per quelle inutili vittorie, preludio a sogni di serie A rigorosamente evaporati.
Dopo una decina d’anni di paradiso, con ogni probabilità, scongiuri concessi, i rosanero stanno per ritornare nella loro vecchia casa. Nel frattempo se n’è andato Andreotti, ma da poco, la cinquecento e carosello li hanno riproposti, il super santos mi dicono ci sia sempre. Il palermitano, domani più che mai, scenderà in piazza per la Juventus, o per il Milan, avendo noleggiato il suo tifo per altre squadre proprio in quegli anni bui. Studieremo avversari nuovi, andremo a Juve Stabia, a Lanciano, a Cittadella, a Pro Vercelli.
E la Sambenedettese c’è ancora?