PALERMO, 8 GENNAIO 2013 – Oggi è facile lasciare un partito. Lo è per tanti motivi, perché i confini con il partito “vicino di casa” è abbastanza esile da non comportare alcun problema di coscienza nella scelta di una nuova tessera. Lo è anche perché il prefisso centro in entrambe le sponde politiche autorizza persino cambi di schieramento senza imbarazzo alcuno. Ma lo è soprattutto perché il partito, oggi più che mai, non garantisce più alcun surplus al peso specifico di ogni esponente, sia esso deputato o consigliere comunale.
La dote è personale, per nulla ideologica, basata su logica territoriale. E non è un caso che il meccanismo elettorale, che ai livelli più alti non prevede il voto di preferenza, ha potenziato il ruolo di chi il consenso è stato costretto a costruirselo con il contatto diretto con l’elettore, sommando voto dopo voto. E’ più semplice di no al tuo leader se sai di “pesare” più di lui, fosse anche il segretario regionale o il capo assoluto…
E’ ovvio che tale fenomeno incide più sui partiti intermedi, la cui esistenza in vita è spesso determinata dalla competizione elettorale che li trasforma in meri centri di aggregazione utili per la conquista di un seggio.
A seggio ottenuto le strategie di partito ed eletto possono diventare divergenti, come nel recente caso Cimino – Grande Sud. Posto che Cimino il posto all’Ars se l’è guadagnato – e l’avrebbe ottenuto anche nel Pdl, partito che abbandonò proprio per seguire Miccichè – appare naturale la sua avversione ad un’operazione che mette in discussione i temi sostenuti durante la campagna elettorale. Ecco che allora scatta la difesa del proprio bacino d’utenza che viene prima del partito. Ecco il coerente atto di ribellione all’abbraccio, ritenuto mortale, con Berlusconi. Si può calare la testa per fede o per interesse. Chi avrebbe lasciato Forza Italia dieci anni fa? Nessuno, perché allora quel partito potenziava il rendimento dei singoli. Ma oggi? Oggi Cimino – e come lui Bufardeci, Tamajo e Savona – sa che i voti veri e verificabili sono esclusivamente suoi e pretende di decidere come investire il proprio patrimonio personale. Fregandosene di Miccichè e di Grande Sud, di Berlusconi e della conquista del Senato. E persino di Fallica che, con sarcasmo, ne fa un novello Giuda. E chi può dire che abbia torto Cimino, figlio di questi tempi e di questi partiti?