PALERMO – Il 29 giugno del 2004 Palermo si sveglia con le sue strade piene di adesivi: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.
Nasce così “AddioPizzo”, associazione di giovani decisi a lottare contro la mafia del racket delle estorsioni.
In quegli anni, lo dimostrano gli atti di molti processi, tutti o quasi tutti, dal centro alla periferia, pagano il pizzo alla mafia.
Daniele Marannano, fondatore di AddioPizzo, dopo otto anni cosa è cambiato?
“Rispetto ad alcuni anni fa le denunce sono sicuramente aumentate e in modo notevole, non è un incremento esponenziale e tra l’altro non ci illudevamo di avere carovane di commercianti pronti a denunciare. Ma si sono create le condizioni per le quali chi decide di non pagare non si senta isolato e non sia a rischio di ritorsioni. Per questo le denunce sono sempre più numerose”.
Ma molti continuano a pagare, perché?
“C’è un dato culturale, di mentalità ma soprattutto c’è il problema della contiguità che molto spesso si instaura fra vittima e mafia. Spesso chi paga il pizzo si rivolge al suo estorsore per, diciamo, una serie di servizi. Dal recupero crediti ai problemi di concorrenza. È negli atti dei processi che spesso le vittime del racket chiedono ai mafiosi di recuperare somme non pagate o di imporre un vero e proprio cartello di prezzi a nuovi operatori che potrebbero fare concorrenza alle attività taglieggiate”.
La forza anche emozionale dei vostri adesivi fu molto forte, dette una vera spallata a istituzioni e società civile. Oggi quale spallata ci vorrebbe?
“Credo che siamo in un momento nel quale è veramente possibile una svolta nella lotta al racket. Alcuni collaboratori di giustizia hanno rivelato che adesso la mafia preferisce non chiedere il pizzo a chi aderisce ad un’associazione antiracket, per evitare, come si legge nei verbali, ‘cammurrie’. Per questo la svolta deve essere l’incremento delle denunce collettive. I processi ‘addiopizzo’ e alla cosca di Carini hanno dimostrato che quando a denunciare sono gruppi di operatori i risultati sono maggiori e il disagio di chi denuncia è minore. Quando non sei solo ad indicare in aula chi è il tuo estorsore la cosa è molto più semplice”.
Sembra che ultimamente alcuni decidano di denunciare perché semplicemente non hanno i soldi per pagare il pizzo. La crisi economica potrebbe almeno avere questo risvolto positivo?
“Paradossalmente, se prima si considerava il pizzo come un costo fisso dell’attività, adesso, con la crisi, molti denunciano per salvare la propria azienda, per arrivare alla fine del mese. Questo fenomeno esiste. Certo con l’aumentare delle difficoltà economiche aumenta il rischio di fenomeni di usura ma soprattutto che le organizzazioni mafiose sostanzialmente rilevino con la loro massa di denaro sporco attività imprenditoriali in difficoltà”.
Nella lotta alla mafia e al racket quale ruolo hanno i mezzi di informazione?
“Un ruolo fondamentale, soprattutto nel tenere sempre viva l’attenzione su queste questioni nell’evitare che si creda ci siano cali di tensione. Ma deve essere un’attenzione positiva che, senza sacrificare il diritto di cronaca, non sovraesponga gli operatori che denunciano. L’informazione deve essere uno scudo e l’esigenza sacrosanta di raccontare i fatti non deve rischiare di spaventare chi è ancora indeciso se esporsi denunciando o continuare a subire. La lotta al racket è una lotta di squadra non dell’imprenditore o di AddioPizzo. E deve essere sentita come una lotta che ci coinvolge tutti: cittadini, imprese, associazioni, stampa, istituzioni”.
In questi anni voi di AddioPizzo in cosa vi sentite migliori e in cosa peggiori rispetto ai vostri inizi?
“Siamo sicuramente cresciuti e da una iniziale diffidenza si è passati ad un atteggiamento di fiducia da parte di molti. Se prima eravamo noi a cercare gli imprenditori e convincerli a denunciare adesso sono loro che cercano il nostro aiuto. Il lato negativo è legato alla complessità di questa città, di questa regione, dove spesso ci si dimentica che queste battaglie si vincono restando tutti uniti. In questo senso non ci siamo impegnati abbastanza a ‘fare rete’ con tutte le altre realtà, a instaurare una rete solida fra tutti coloro che a qualunque titolo affrontano questa lotta. Dovremmo dedicare più sforzi a questo cercando anche di superare le croniche difficoltà direi antropologiche a stare insieme che hanno sempre caratterizzato la storia di Palermo e dei movimenti”.