La decapitazione è stata l’ultima ed estrema forma di violenza per l’Isis. Prima, i combattenti jihadisti torturavano per giorni gli ostaggi, picchiandoli, lasciandoli senza cibo e inscenando finte esecuzioni. A raccontarlo è il New York Times che ha raccolto le deposizioni di ex ostaggio, famigliari e di Jejoen Bontinck, un “foreign fighter” che dal Belgio si unì all’Isis e che ora è sotto processo.
La lunga agonia dei quattro ostaggi decapitati dall’Isis quest’anno, i giornalisti James Foley e Steve Sotfloff e gli attivisti David Haines e Alan Henning, è iniziata ben prima del giorno della loro esecuzione. I quattro detenuti erano quelli scelti per le torture peggiori, perché gli Usa e il Regno Unito si rifiutavano di trattare per il riscatto, al contrario degli altri paesi europei.
Secondo i racconti degli ostaggi, quando vedevano un compagno di cella ritornare coperto di sangue: se i carcerieri non li picchiavano, allora li torturavano con forme di violenza come il waterboarding, il quasi annegamento praticato sui prigionieri nel campo di detenzione americano di Guantanamo, lo stesso da cui gli jihadisti hanno “preso” le divise arancioni.
Gli ostaggi erano divisi per paese: si dava la priorità di possibile liberazione alle persone con passaporti di Paesi disponibili a trattare. Si sarebbe iniziato con gli spagnoli, poi i francesi e anche con l’italiano Federico Motka. Il New York Times ha specificato che l’Italia ha sempre negato di avere pagato riscatti: il reportage non parla del destino delle due giovani italiane rapite ad agosto, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, e di padre Paolo Dall’Oglio, scomparso nel 2013.
Il Nyt comunque è sicuro: “Gli europei sono stati liberati grazie ai riscatti”. Nelle mani dell’Isis da giugno ci sarebbero stati sette prigionieri occidentali: quattro sono stati americani. Gli altri trew cono il britannico John Cantlie, comparso in diversi video dell’Isis, l’ex soldato Peter Kassig,