Lo chiamano il “medico dei migranti” perché Vincenzo Morello si occupa della loro salute da 13 anni, da quando il centro di prima accoglienza di Pozzallo (Ragusa) è entrato in funzione. È il primo a salire sulle navi per visitarli o ad accoglierli sulla banchina del porto quando arrivano con i barconi di fortuna, ma è anche il riferimento sanitario di chi resta nel Centro o di chi decide di restare a vivere a Pozzallo. Morello, ex arbitro di calcio, arrivato fino ai ruoli della Commissione arbitri nazionale, è un medico di frontiera. Di sbarchi di migranti ne ha vissuti a centinaia, di visi impauriti e disperati ne ha visti a migliaia, ma c’è un episodio che ricorda molto bene e che ha conservato in modo indelebile nella sua memoria: “Era il 7 luglio 2013 e mi trovato a Portopalo di Capo Passero – racconta – mi avevano chiamato perché c’era stato uno sbarco consistente, con tantissimi piccoli, tant’è che è stato sempre chiamato ‘lo sbarco dei bambini'”. Morello si commuove mentre racconta questa storia, ha gli occhi lucidi.
“Quel giorno (l’operazione ‘Mare nostrum non era ancora cominciata) ci portarono a bordo del natante in avaria, a poco a poco i migranti – aggiunge – venivano trasbordati sulla nave che li avrebbe portati ad Augusta. Il barcone sul quale viaggiavano però non sarebbe stato trainato, ma lasciato alla deriva. Mentre stavo per salire sulla nave, mi accorsi che sul barcone c’era una coperta, pensavo fossero oggetti personali di qualcuno e così andai a controllare; ma quando alzai il plaid vidi una bambina, piccola piccola, meno di un anno, credo avesse 10 mesi, con due occhioni neri neri. Era di carnagione chiara, figlia di una siriana. Ovviamente la portai con me. La mamma l’aveva lasciata sul barcone non perché la volesse abbandonare ma perché era convinta che il natante venisse trainato”.
“La piccola non piangeva, mi guardava dritto negli occhi e accennava un sorriso. La tenni stretta a me per tutto il resto del viaggio e una volta arrivati l’affidai ai sanitari per i controlli di routine: era disidratata e affamata. C’era un particolare che mi colpì: sulla mia spalla – conclude – con la sua manina amava toccare i miei capelli: era lo stesso atteggiamento che aveva mia figlia quando doveva prendere sonno. Mi adoperai per trovare la mamma, che qualche ora dopo lo sbarco fu portata in ospedale dalla sua piccola. La considero un po’ mia figlia, d’altronde in qualche modo l’ho salvata e ammetto di aver pensato di adottarla nel caso in cui la madre l’avesse rifiutata. Mi sono occupata di lei finché non è rimasta in Sicilia, poi la mamma ha proseguito il suo viaggio verso il nord Europa e ha portato con sè pure la piccola, mi piacerebbe sapere come sta e dove vive adesso”.