Il fatto che si chieda di spostare il processo sulla trattativa Stato-mafia da Palermo, da un’aula bunker costruita proprio per celebrare il primo maxi processo alle cosche è “un paradosso”.
Il giorno dopo la richiesta di tre dei dieci imputati del processo sul presunto patto tra pezzi delle istituzioni e i boss di trasferire il dibattimento da Palermo per problemi di incolumità pubblica, sceglie di parlare l’aggiunto Vittorio Teresi, a capo del pool che ha coordinato le indagini sulla trattativa. L’istanza, tecnicamente definita di “rimessione”, è stata trasmessa dalla corte d’assise alla Cassazione che dovrà decidere nel merito e dovrà pronunciarsi anche sulla richiesta di sospensione del processo presentata dai tre imputati: gli ex ufficiali dell’Arma Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno.
“Negli anni del maxi-processo – spiega Teresi al termine dell’udienza – ci furono tensioni fortissime e i magistrati vennero minacciati ripetutamente, per tutta risposta in tempi brevissimi si costruì quest’aula proprio per ribadire la presenza dello Stato. Anche in quel caso si fecero richieste analoghe per legittima suspicione. Ma vennero respinte”. Per il magistrato, inoltre, non è un caso che la richiesta di spostare il dibattimento venga proprio dai tre ufficiali dell’Arma, gli stessi che, secondo l’accusa, negli anni delle stragi del ’92, scesero a patti con Cosa nostra. “Continuano con il loro ‘peccato originale’ – dice – pensando che davanti alla minaccia di un pericolo lo Stato debba arretrare”. Nella loro istanza gli imputati invocano tutta una serie di circostanze, come le minacce lanciate ai magistrati dal boss Toto’ Riina nelle sue conversazioni intercettate in carcere, come possibili spie del rischio per l’incolumità pubblica che il processo in corso a Palermo comporterebbe.
“L’irritazione di Riina – spiega Teresi – riguarda la celebrazione del processo, quindi spostarlo non servirebbe a nulla”. Il magistrato si spinge anche oltre, ipotizzando che il capo dei capi di Cosa nostra abbia scientemente parlato di attentati imminenti nei dialoghi captati dagli inquirenti per creare un clima di allarma tale da giustificare il trasferimento del dibattimento sulla trattativa. “C’è stato un tempo – conclude – in cui il quartiere palermitano di Brancaccio era il Bronx di Palermo. Lo Stato reagì non evacuandolo, ma aprendo un commissariato di polizia. Ed è questo che dallo Stato oggi ci aspettiamo, che riaffermi la sua volontà di esserci”.