La Procura della Repubblica di Agrigento ha chiesto il giudizio immediato per il tunisino Khaled Bensalem, di 36 anni, ritenuto il ‘capitano’ del peschereccio con circa 500 migranti a bordo che il 3 ottobre del 2013 fece naufragio davanti a Lampedusa, provocando la morte di 366 passeggeri. Gli sono contestati i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, naufragio e omicidio aggravato. La richiesta è del procuratore Renato Di Natale, dell’aggiunto Ignazio Fonzo e del sostituto Andrea Maggioni.
Il tunisino è accusato di essere stato il ‘capitano’ di un equipaggio ridotto al minimo: lui e un suo connazionale, giovanissimo, al massimo ventenne, forse anche minorenne, che non è sopravvissuto al naufragio. E’ lui, per l’accusa, il ‘withe man’, uno dei due uomini bianchi “dal colore del volto diverso da quello tipico degli eritrei”, che comandava la nave partita dalla Libia 24 ore prima della tragedia. Secondo la Procura di Agrigento, il ‘capitano’ dopo “avere sottoposto a trattamento inumano” i migranti, avrebbe “lasciato l’imbarcazione da lui condotta in balia del mare per 2 ore di fronte a Lampedusa” e per “farsi vedere da eventuali soccorritori” avrebbe “dato a fuoco personalmente a coperte e lenzuola”, provocando così “il propagarsi dell’incendio, poi il panico e, infine il rovesciamento e l’affondamento della nave” e “cagionando la morte di 366 persone”.
Dall’inchiesta della Procura di Agrigento emerge l’esistenza di un centro di raccolta a Tripoli. In Libia i migranti, che hanno pagato tra 1.000 e i 2.000 dollari a persona, sono stati ospitati, per settimane, in un grande capannone e poi condotti, su cassoni di camion chiusi, in un porto. Infine condotti con piccole barche al largo sulla nave, che ha poi fatto naufragio. Khaled Bensalem si è sempre proclamato innocente sostenendo di essere uno dei passeggeri e di avere pagato mille euro per arrivare in Italia. Ha confermato di essere stato nell’isola delle Pelagie, l’11 aprile del 2013. In quel caso, ha confessato, da scafista assieme a tre marocchini. Ma fu obbligato, ha spiegato ai pm, dall’allora suo datore di lavoro che minacciandolo con una pistola gli impose di fare “un trasporto di clandestini verso l’Italia”.
Nell’ultima traversata, quella per cui è imputato, ha detto che era organizzata da libici che non conosceva e di avere viaggiato tutto il tempo in una cella frigorifera. Ai magistrati che gli hanno contestato un’ustione al braccio sinistro ha spiegato di essersela procurata salendo sul ponte quando la nave si e’ fermata. Ha sostenuto di avere visto l’uomo che ha involontariamente appiccato il fuoco, ma di non conoscerlo e di non averlo visto tra i superstiti.