La battuta, in tutta franchezza e poca “amicizia” – come invece ha sottolineato il segretario del Pd, Matteo Renzi – è stata di quelle toste, tostissime ed è arrivata dopo un fuoco di fila di dichiarazioni, nella direzione nazionale dei Democratici, che accreditavano la posizione del sindaco di Firenze contro la minoranza bersaniana, impegnata a resistere alla proposta di riforma della legge elettorale siglata con Silvio Berlusconi.
Al centro delle polemiche, la scelta di Renzi – una fra le tre presentate in campagna elettorale per le primarie dell’8 dicembre – che ripropone le liste bloccate archiviando definitivamente l’opzione sul reinserimento delle preferenze. Tema su cui, a vario titolo nel corso della direzione Pd, la corrente bersaniana è stata richiamata alla “verità”: è stato il sindaco di Torino Piero Fassino a scoprire i giochi sostenendo con forza che nelle chiuse stanze del Nazareno quando si è parlato di riforma elettorale l’unico terreno di confronto è stato fra “collegi uninominali sì o collegi uninominali no”. Svelando cioè che nel Pd le preferenze, a parte qualche pubblica esternazione acchiappaconsensi, non sono un problema da un bel pezzo.
Lo schiaffone in diretta streaming tocca però a Renzi, che sbugiarda Cuperlo e con lui tutti i suoi colleghi di corrente ricordando che nessuno fra i deputati eletti col sistema delle nomine dalla segreteria si sia mai lamentato di questa modalità avendone beneficiato. Cuperlo si alza e va via.
Oggi, nella riunione di minoranza alla Camera dei deputati, matura la scelta: il presidente del Pd – chiamato a quel ruolo dallo stesso Renzi in una strategia di pacificazione del partito che dura il tempo di uno sputo – lascia e Renzi incassa un altro successo personale che si lega proprio a quella auto-emarginazione che ha i prodromi della scissione e che si concretizzerà con la composizione delle liste “corte” e bloccate nei collegi che verranno per la riforma benedetta, infine, da tutti.
Perché al di là delle apparenze, Renzie – al tavolo di fronte a Berlusconi – pare abbia già convinto tutti. O meglio li aveva già convinti tutti. Mentre sabato scorso, le tv nazionali si affannavano a dare resoconti dettagliati sulle riunioni contemporanee – al Nazareno e a Pesaro dove il Nuovo Centrodestra riuniva i giovani del partito di Alfano – pare che i due “vice” di Renzi e Berlusconi fossero nel pieno di trattative parallele con Ncd da un lato e con tutti i partiti minori della coalizione dall’altro portandoli tutti dentro il recinto di un accordo che a Montecitorio e a palazzo Madama troverà pochi ostacoli. Tranne l’irriducibile speranza di ostruzionismo espressa dai 34 astenuti della direzione Pd.
E nemmeno su questa minoranza parlamentare di “ultimi giapponesi” rischia di poter far conto Cuperlo con i suoi: oggi nel corso della riunione della minoranza in cui l’ex contendente alla carica di segretario ed ex presidente del partito, a smarcarsi dalla sua linea è il “giovane turco” Matteo Orfini: “Io un emendamento per le preferenze non lo voto, a meno che non sia l’emendamento del mio partito. Mi attengo alle decisioni della direzione e del gruppo, perché questo è il modo per tenere unito il Pd. Altrimenti, per questa via, il Pd si sfascia”.
Segni di apertura persino dall’ex viceministro dell’Economia, Stefano Fassina che su Renzi, quello del “Fassina chi?”, ha detto: “Riconosco che ha fatto un ottimo lavoro. C’è un accordo. Andiamo a lavorare su quest’accordo, cerchiamo di migliorarlo per quanto ci riguarda. Noi vogliamo che le riforme vadano in porto. Tutto il resto dimentichiamolo”.