La Procura di Agrigento ha disposto il fermo del presunto scafista del naufragio di Lampedusa in cui sono morti centinaia di migranti. Si tratta del tunisino Kaled Bensalam, di 35 anni, indicato da alcuni testimoni come il ‘comandante’. Il provvedimento, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ipotizza anche i reati di naufragio e omicidio volontario plurimo.
Sono sei i testimoni, tutti eritrei, che identificano l’uomo come uno ‘scafista’ e la maggior parte di loro lo indica anche come il ‘capitano’ dell’equipaggio che era composto da due persone, compreso un giovane che potrebbe essere un minorenne suo connazionale, che non è tra i superstiti. Il tunisino nell’aprile scorso aveva già fatto parte di un equipaggio di uno sbarco nell’isola delle Pelagie.
Il presunto comandante della nave carica di migranti che ha fatto naufragio a Lampedusa avrebbe avuto anche un ruolo nell’incendio del peschereccio. Lo affermano dei sopravvissuti eritrei sentiti dalla Procura di Agrigento, nell’ambito dell’inchiesta che ha portato al fermo del presunto scafista. Elementi non certi, tanto che la magistratura non gli contesta il reato di incendio. Le fiamme erano state appiccate, hanno confermato i sopravvissuti, per fare notare la presenza della nave alle autorità italiane, affinché li portassero a Lampedusa. Un testimone racconta di ”avere visto il capitano versare benzina o gasolio su una coperta”, ma “non può dire che sia stato lui ad accendere”. E’ certo che ”si è incendiata una parte dell’imbarcazione e tutti si sono riversati verso prua e la barca si è ribaltata”. “Non l’ho visto dare fuoco – racconta un altro – ma ho sentito dire da molte persone che era stato lui involontariamente a dare fuoco al ponte dell’imbarcazione”. Un terzo sopravvissuto ricostruisce così la dinamica dell’accaduto: “Mi hanno chiesto un coltello” e “nel frattempo c’è stata una vampata che ha causato l’incendio a bordo. E in quel momento – ricorda – che ho visto il capitano, l’arabo più grande, correre insieme a altre persone verso la mia direzione, a poppa”.
“Non risulta che fossero armati sul barcone della morte, ma al momento dell’imbarco a Misurata, in Libia, c’erano dei soggetti armati”. Lo ricostruiscono il procuratore capo Renato Di Natale e l’aggiunto Ignazio Fonzo durante la conferenza stampa. Il tunisino, fermato perché ritenuto il comandante dell’equipaggio, è stato condotto dalla polizia nella casa circondariale di Petrusa a Agrigento.
Fermi per due ore al largo di Lampedusa, avvistati, prima che divampasse l’incendio, da due piccole imbarcazioni civili che non sono intervenute. Lo sostengono i sei testimoni della tragedia nelle loro deposizioni agli atti dell’inchiesta della Procura di Agrigento. Uno dei sopravvissuti spiega di “non sapere per quale ragione siamo stati fermi lì due ore”. Forse, ipotizza, “chi conduceva l’imbarcazione voleva che qualcuno dall’Italia venisse a prenderci”. “Peraltro – aggiunge – si sono avvicinate due imbarcazioni alle quali abbiamo rivolto dei cenni di saluto. Erano probabilmente due pescherecci”. Un altro testimone dà una versione leggermente diversa: “credevamo che da terra ci avessero avvistati e stessero venendo a prenderci, si sono avvicinate due imbarcazioni, ma non abbiamo chiesto aiuto perché pensavamo che stavano per arrivare i soccorsi”. Un terzo sopravvissuto conferma la “presenza di due imbarcazioni civili, presumo di pescatori”, e che una di queste “ha circumnavigato la nave”.
“Dal 2009, da quando e’ stato introdotto il reato di immigrazione clandestina, abbiamo dovuto indagare oltre 13 mila persone, per le quali abbiamo sempre chiesto l’archiviazione. Abbiamo solo applicato una legge”. Lo dice il procuratore aggiunto di Agrigento, Ignazio Fonzo. “Noi questo siamo tenuti a fare – aggiunge – abbiamo come sindacare una legge e lo abbiamo fatto: la Corte costituzionale ci ha detto che è compatibile con l’ordinamento. Scandalizzarsi oggi perché noi in indaghiamo i migranti è inqualificabile”.
Intanto, potrebbe passare alla direzione distrettuale antimafia di Palermo l’indagine sul naufragio. Oggi il procuratore aggiunto della Dda di Palermo Maurizio Scalia e il sostituto Geri Ferrara incontreranno i colleghi di Agrigento, che indagano sulla vicenda, e tutte le forze dell’ ordine che hanno partecipato alle operazioni di soccorso e all’inchiesta per fare il punto sul caso e decidere se può essere ipotizzato il reato di tratta di esseri umani che farebbe attribuire la competenza alla Dda anziché alla procura ordinaria. Il reato di tratta, secondo i Pm, potrebbe essere contestabile anche agli scafisti.